Il 12 dicembre 1969, a Milano, sembra essere una qualunque giornata d’inverno. La città brulica come sempre, migliaia di persone per le strade della capitale economica d’ Italia si muovono freneticamente, assorte tra il lavoro e l’incombenza dei preparativi per il Natale imminente. Anche a piazza Fontana, nella sede della banca dell’Agricoltura, i clienti si affrettano per le ultime incombenze prima della chiusura. Alle 16,37, nel grande salone dal tetto a cupola, l’esplosione di un ordigno contenente sette cili di tritolo spezza all’improvviso la vita di 17 persone, delle quali 13 sul colpo e ferendone altre 87. Poco lontano, in piazza della Scala, presso la Banca Commerciale Italiana, viene rinvenuto un altro ordigno inesploso. Pochi minuti più tardi, a Roma, una terza bomba esplode nei pressi della Banca Nazionale del Lavoro in via Veneto. Altre due brillano al’altare della Patria e al Museo del Risorgimento in piazza Venezia. I cinque attentati di quel pomeriggio segnano l’inizio di uno dei periodi più bui della storia repubblicana conosciuto come “strategia della tensione”. La fine degli anni sessanta in Italia presenta un quadro intricato e teso. Alla vigilia dell’ “autunno caldo”, proprio nel ’69, vengono al pettine alcuni nodi irrisolti del boom economico, primo tra tutti il fallimento della politica delle riforme dei governi di centro sinistra, dal quale vien fuori un ridimensionamento del miracolo economico. Tutto ciò acuisce le tensioni sociali nel Paese che si saldano a quelle promosse nel ’68 dal movimento studentesco e sulle quali soffia l’onda lunga del “maggio francese”. Quali parole migliori per riassumere quei momenti di estrema passione se non quelle di De Andrè in “Storia di un impiegato”: « Anche se il nostro nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti». In quei due anni, un lasso di tempo così breve, si concentra un susseguirsi di avvenimenti che si abbattono come un tornado sull’Italia. Il 9 aprile del ’69 a Battipaglia si celebra un grande sciopero generale per protestare contro la chiusura d alcune fabbriche. Una città compatta scende in piazza , ma quando un gruppo si dirige verso la stazione ferroviaria, la polizia interviene e così un ragazzo di diciannove anni e una giovane professoressa perdono la vita sotto i colpi delle forze dell’ordine come un anno prima ad Avola. Subito dopo la strage di piazza Fontana, il primo a cadere nella rete della (mala) giustizia è Giuseppe Pinelli, ferroviere milanese, anarchico e già staffetta partigiana durante la Resistenza. Tre giorni dopo il fermo muore cadendo dal balcone della questura, episodio derubricato dalla magistratura come suicidio. Poi è la volta di Valpreda, ballerino con alcuni precedenti penali, incastrato dalla testimonianza di un tassista che ben presto si sfalderà come tutto l’impianto accusatorio, fragile e incongruente e che prosegue su altre strade, puntando su una nuova area di indagine, quella dell’eversione neofascista. Le indagini portano alla luce l’esistenza di una cellula di estrema destra. La parabola giudiziaria su Piazza Fontana durerà quarant’anni un’odissea senza fine e carica di paradossi. Dieci processi senza colpevoli perseguibili e una contraddizione tra verità strorica e processuale. A distanza di 50 anni da quel tragico evento non ci resta che parafrasare De Gregori: «W l’Italia del 12 dicembre».
Buona memoria a tutti.
Daniele Leopoldo